Scenario del nostro itinerario è Acitrezza, luminoso borgo marinaro ricadente nel comune di Acicastello. Il tessuto sociale e culturale di questa terra, cosa di cui il visitatore si rende conto immediatamente, è profondamente intriso di una remota memoria storica, addirittura mitologica.
Al contrario di quello che si potrebbe pensare visitando per la prima volta una cittadina dove squillano i cellulari e fanno capolino diverse antenne paraboliche, il passato più lontano è ancora ben vivo e presente nelle radici di appartenenza della popolazione, fiera di aver ospitato dèi e semidei, eroi mitici e ninfe leggiadre, cantate dai massimi poeti dell’età classica.
I riferimenti mitologici iniziano a far capolino già dai toponimi, e seguono l’escursionista per tutto il corso della visita. I nomi di Acitrezza e Acicastello infatti, come quelli dei limitrofi Aci San Filippo, Aci Sant’Antonio, Aci Bonaccorsi, Acicatena, Aci Platani, Acireale, ricordano tutti l’ormai sotterraneo fiume Aci, la cui storia si specchia in quella, mitologica, dell’adolescente pastorello Aci. A cantare il tormentato amore di Aci, figlio di Fauno, con la bella ninfa Galatea, furono mostri sacri dell’antichità greca e latina quali Callimaco, Ermesianatte, Teocrito, Virgilio e Ovidio.
Ma cosa narra la leggenda? Che Polifemo, il mostruoso ciclope protagonista di altri celebri episodi mitologici, avesse messo gli occhi su Galatea, “bianca come il latte“, figlia di Nereo e Doride (e sorella di Ligèa, che avrebbe poi dato il nome all’Isola Lachea). Ma la candida nereide non corrispondeva affatto le attenzioni del gigante, preferendogli decisamente il giovane Aci, di cui si era innamorata vivendo con lui intense e appassionate notti d’amore al chiaro di luna, in riva al mare.
Al termine di una di queste Polifemo, pazzo di gelosia, scagliò un enorme masso di lava su Aci, uccidendolo, mentre a Galatea, riemersa dai flutti in cui si era poco prima tuffata, non restò che piangere amaramente sulle spoglie dell’amato. Il masso, poi, rotolando in mare formò l’Isola Lachea. Mossi a compassione per l’infelice destino dei due innamorati, gli dèi trasformarono Aci in un ruscelletto destinato a sfociare nelle onde di Galatea, appunto, mutata in spuma del mare. Una bella e romantica storia, dietro cui forse si può leggere in controluce l’evento eruttivo (rappresentato dal masso di Polifemo) che investì il letto del torrente Aci, costretto da allora a ingrottarsi e seguire vie sotterranee prima di gettarsi in mare.
Polifemo è però “noto al grande pubblico”, se così si può dire, per un’altra performance mitologica, quella che spiegherebbe la remotissima comparsa dei faraglioni nel panorama della riviera ionica. Scrive Omero nell’Odissea che una tempesta deviò la flotta di Ulisse di ritorno da Troia, fino a spingerlo sulle coste siciliane. Ormeggiate le imbarcazioni in un’insenatura protetta, capitano e marinai erano sbarcati sulla terraferma in cerca di provviste. Sfortuna volle che si imbattessero proprio nell’antro del famigerato Polifemo, il più efferato fra i Ciclopi, creature mostruose intente a forgiare saette per Zeus nella fucina di Efesto.
A dispetto delle sacre leggi dell’ospitalità, il gigante imprigionò i marinai greci, bloccando con un grosso masso l’ingresso della grotta, uccidendone e divorandone un paio. Solo l’astuzia di Ulisse permise al gruppo di fuggire. Era infatti necessario costringere il mostro ad aprire l’ingresso dell’antro. Il re di Itaca riuscì a risolvere con scaltrezza il problema, ubriacando il gigante, accecandolo e mettendo in salvo i compagni superstiti. Il tutto, com’è ben noto, sotto le mentite spoglie del fantomatico Nessuno, il che si rivelò trucco perfetto per assicurare al ciclope, dolorante e privato della vista dell’unico occhio, una memorabile figura da babbeo. Urlando che Nessuno lo aveva accecato, il mostro si era lanciato in un folle inseguimento al buio e, al colmo dell’ira, aveva lanciato contro l’eroe acheo e il suo equipaggio tre enormi massi lavici. La mira, in quelle condizioni, non poteva certo essere infallibile, i massi finirono in mare senza centrare il bersaglio, e da quel giorno tre bei faraglioni, conclude la leggenda, si riflettono nelle tranquille acque dello Ionio. Il fascino del paesaggio, unito al desiderio di spiegare complessi fenomeni naturali, ha invece lasciato il posto, nell’ispirazione degli scrittori a noi più prossimi, alla riflessione sulle durissime condizioni di vita di contadini e pescatori siciliani. A rappresentare magistralmente questi ultimi agli occhi del mondo letterario europeo sarà infatti una misera famiglia patriarcale di Acitrezza, i Malavoglia, nata dalla penna del romanziere vizzinese Giovanni Verga. L’omonimo romanzo, carico di una dolente morale sull’impossibilità di sottrarsi al proprio duro destino, cercando fortuna fuori dai ranghi imposti dal fato e dalla propria terra, diventò il manifesto del Verismo italiano.
Dopo l’epos e la letteratura, è infine la decima musa, quella del cinema, a fermarsi all’ombra dei faraglioni con il regista Luchino Visconti, nel 1948, nasce un culto del cinema italiano, “La terra trema“, lungometraggio interamente girato con attori non professionisti scelti tra i pescatori di Acitrezza, che riprende i fili del romanzo verghiano amplificandoli nello specchio della poetica neorealista del secondo dopoguerra.
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